Annusai l’aria. Riconobbi l’odore, ogni cosa intorno mi era familiare. Non ero sola, di questo ero certa perché sentivo il loro respiro. Bisbigli sommessi, gridolini, colpi di tosse e qualche sonoro sternuto accompagnavano il mio buio.
Presi coraggio, feci un bel respiro, stiracchiai il mio esile corpo ben ancorato sulla sedia e tutto d’un fiato gridai: “Mi chiamo Stefania. Non so perché sono qui, non vedo nulla ma so che ci siete! Chi siete?”
Mi sembrò di aver zittito quei bisbigli, ma, al mio richiamo, nessuna voce forte e chiara, in realtà, fece eco.
Il nervoso mi salì in corpo.
Avrei voluto andar via da lì, ma le tenebre mi tenevano stretta come fossero tenaglie. Non avevo idea di dove fosse l’uscita, l’unica cosa certa era che ero seduta su una seggiola, che intorno a me c’erano tante persone e che nessuna di queste era intenzionata a rivolgermi anche solo una parola.
Dal momento che non riuscivo a vedere nulla, ma ero certa di non essere cieca e il tatto e l’odorato funzionavano benissimo anche al buio, cominciai a tastare con le mani l’intorno. Alla mia destra stava una donna, ne ero sicura: palpeggiando con delicatezza, ero incappata in una tetta morbida! Quella persona era sicuramente viva, perché il suo corpo era caldo e non rigido, ma la cosa curiosa era che non reagiva ai miei tocchi, non una parola né un movimento di disapprovazione. Era totalmente indifferente. La toccai a lungo meticolosamente per fissare bene in mente ogni più piccolo dettaglio. Volevo immaginarmela.
Alla fine l’identikit fu questo: donna, più o meno alta come me, capelli lunghi e mossi, nessun monile, solo un paio di occhiali usato come fermacapelli. Indossava pantaloni di tela jeans. Da come la sentivo muoversi sulla sua sedia, avrei scommesso che non aveva più di venti anni.
Alla mia sinistra una sedia si era mossa. Con la mano scandagliai bene chi o cosa mi stesse accanto da quella parte. L’esile corpo di una bambina scalpitò sotto le mie dita. Era seduta e portava una gonna corta, perché arrivai a toccare facilmente le sue cosce lunghe e magre. Le sue gambe oscillavano frenetiche, ancora troppo corte per arrivare a terra. Sicuro, non aveva più di cinque anni. Le accarezzai la testa. I suoi capelli, lunghi, morbidi, setosi erano legati con un fiocco di raso. Anche questa bambina sembrò non accorgersi che la stavo sfiorando.
All’inizio, questa insolita situazione mi aveva impaurito, poi mi calmai. Chi mi stava intorno non sentiva la mia presenza ma io sentivo la loro. Questo mi metteva in netto vantaggio se, casomai, avessi dovuto gestire una situazione pericolosa. Rimasi comunque guardinga, del buio non mi fido. Poi c’era quell’odore, così familiare, che mi metteva pace. Non sapevo perché fossi lì, non sapevo quanto dovessi rimanere in quello stato di isolamento e non comprendevo neanche se stessi vivendo una condizione reale o se tutto fosse un sogno. Avevo solo una certezza, che neanche capivo poi perché l’avessi, ma l’avevo: quella tana oscura era la mia tana, lì ero al sicuro.
Sobbalzai sulla sedia: un cigolio improvviso, stridente e forte mi fece venire il batticuore, stava aprendosi una porta. Trattenni il fiato. Immaginai l’onda d’urto della luce che avrebbe colpito i miei occhi. Ero pronta a socchiuderli per non rimanere abbagliata. Scelsi di proteggermi nascondendoli sotto le mani. Mi sarebbe bastato lo spiffero di luce tra un dito e l’altro per tornare a distinguere la realtà che mi circondava. Finalmente il mio enigma si sarebbe risolto.
Nessuna sfumatura di colore penetrò tra le mie dita, il buio rimase buio. Sul mio grembo, però mi ritrovai qualcosa. Abbassai immediatamente le mani per capire meglio cosa fosse quel tepore in precario equilibrio sulle mie gambe. Era una minestra fumante in una ciotola di coccio con dentro anche il cucchiaio.
La annusai circospetta. Il profumo era delizioso, invitante. Riconoscevo l’aroma della pancetta croccante e del timo. Non avevo fame ma ero incuriosita e l’assaggiai. Le riconobbi al palato, erano lenticchie rosse, quelle piccole, della migliore qualità. Buonissime! Un gridolino stizzoso mi fece voltare di scatto a sinistra, quasi rovesciavo la pietanza a terra. La bambina ora piangeva a dirotto e batteva con insistenza i piedi a terra. Poi la sentii affermare con voce squillante, tra un singhiozzo e l’altro: “Non mangerò mai le lenticchie, le lenticchie sono schifose!”
Non toccò miglior sorte alla giovane donna alla mia destra: la sua zuppa puzzava di bruciato. Se la bambina stava facendo straveri e capricci a non finire, la giovane donna accanto a me non era da meno a reazioni impulsive. Fu forte il rumore del coccio che si rompeva in mille pezzi. Qualche schizzo di quella minestra bruciata arrivò pure sulle mie caviglie. “Questa è l’ultima volta che do retta agli altri! Eh, no! C’è un limite a tutto e queste lenticchie sono uno schiaffo insolente al mio piatto preferito! Sono venute uno schifo! Ma andate tutti a cagare!” Pensai: stiamo tutte vivendo una situazione simile, alle prese con una zuppa di lenticchie! Mi chiesi: è solo una coincidenza?
Sentii raspare alla porta, poi un urlo. Un grido di spavento mi gelò le vene. “Papà, papà! –chiamò una voce di bambina – c’è qualcuno in cantina!”. “Tattola!– rispose greve l’uomo– Ora vengo a controllare. Quante volte ti ho detto che non bisogna mai allarmare se non c’è ragione! Ormai hai otto anni, sei grande abbastanza e devi superare la paura del buio! Se non c’è nessuno, allora sai cosa t’aspetta! Una bella sculacciata!” “Non ho paura del buio io, c’è davvero qualcuno dietro quella porta!”
Fermai il fiato come in attesa di sapere anch’io chi ci fosse dietro quella porta. Il chiavistello girò rumorosamente nella toppa, due mandate, la porta cigolò. Il silenzio fu rotto dal miagolio di un gatto che, finalmente libero, si dileguava chissà dove. “Hai visto, papà, avevo ragione io! Non avevo avuto paura del buio, c’era proprio qualcuno dietro la porta della cantina!”.
Stavo al secondo cucchiaio di zuppa, quando un gatto mi balzò in grembo. Ero certa che fosse un gatto, mi era capitato così tante volte che un gatto mi saltasse addosso all’improvviso che ormai non mi spaventavo più. Il felino lo riconosci perché sa muoversi sempre in modo felpato e leggero, non è mai indeciso e quando plana su di te, sa perfettamente dove poggiarsi. Il buio, poi, non limita certo le sue azioni, anzi!
Con il cucchiaio urtai la testa dell’animale, stava già banchettando nella mia scodella! Non ero arrabbiata di questo fatto, anzi, questo intruso peloso era l’unico essere che sembrava volersi relazionare con me. Cercai solo di tenere lontana la sua testa dal mio cucchiaio. Feci anche un’altra considerazione, però, più amara: quell’animale, in quell’atmosfera senza luce, forse era lì per i fatti suoi e magari non si era nemmeno accorto della mia presenza! Il gatto scese a terra e con la coda ritta lo sentii strofinarsi ai miei polpacci. Pensai malinconica: chissà dove se ne andrà ora. Non tardai a scoprirlo. La voce assonnata di una donna, che dal timbro poteva appartenere ad una persona né troppo giovane né troppo vecchia, sussurrò dopo un lungo sbadiglio: “Micia, va bene che hai voluto che assistessi al parto dei tuoi cuccioli e hai preteso la mia presenza, manco fossi un’ostetrica, ma ora proprio non puoi portarmeli nel letto perché devi andare a fare i tuoi bisogni nella lettiera e non vuoi lasciare soli i tuoi cuccioli! Facciamo così, mi alzo io, controllo i tuoi piccoli mentre fai le tue cose e poi mi rimetto al letto quando hai finito e torni nella tua cesta, va bene?”
Ora avevo compreso. Il gatto era uno, sempre lo stesso. Più precisamente il gatto era una gatta che era rimasta chiusa in cantina e aveva partorito da poco. Ecco perché si era mangiata la mia zuppa di lenticchie! Quando mai, infatti, i gatti gradiscono la zuppa di lenticchie, solo se sono affamati e devono allattare, si abbassano a questo cibo per poveri umani!
Bella risposta, mi dissi. Semplice, razionale. Poi i dubbi mi assalirono di nuovo: il buio ha gioco facile, ti fa credere quello che ti pare e in questo buio nulla è normale! Io ho toccato il gatto che ha mangiato nella mia scodella, le altre situazioni le ho solo ascoltate. Mi chiesi: è solo coincidenza?
Della zuppa fui sazia, e pure di stare seduta sulla seggiola. Stiracchiai le ossa, ma, alzate in alto le braccia e rivolto verso il cielo i palmi delle mani, trovai un ostacolo: una rete tesa mi sovrastava.
Era fatta di corda, a maglie larghe, come fosse la rete di un’amaca. Non era fissata rigidamente, tanto che bastò un piccolo movimento per spostarla dalla mia testa e farla cadere a terra. Mi alzai in piedi libera, con la netta sensazione di non essere più prigioniera. Feci un passo in avanti, ma mi fermai subito perché avevo calpestato qualcosa. Abbassata a terra, tastando, trovai un orsacchiotto di peluche. Profumava intensamente, di un profumo buonissimo che mi rimandava a ricordi indefiniti ma piacevoli.
Sentii nuovamente una porta aprirsi. Doveva essere un’altra porta, l’ennesima porta di quel luogo buio, perché questa volta non aveva cigolato e comunque chi l’aveva aperta lo aveva fatto con molta delicatezza. Poi l’acuto di una donna che seguì subito dopo fu così forte che mi fece indolenzire le orecchie. “Matteo! Matteo!” esclamò concitata quella voce “Vieni a vedere! Guarda cos’ha combinato la piccola! È riuscita ad uscire dal lettino con le sbarre nonostante l’amaca che ci avevi messo!” e continuò con un tono ancora più stupito “O mio Dio, ha preso il mio profumo e lo ha versato tutto sul suo orsacchiotto! Ti rendi conto?
Un’intera bottiglietta di Chanel n.5 è andata a finire in un pupazzo!” Poi la voce, a un volume decisamente più basso e con un tono straziante, disse: “ Oh, no! Guarda che buco! Ha pure strappato la tenda della finestra!”
L’orsacchiotto profumato mi cadde dalle mani. Sentii un brivido lungo la schiena irrigidirmi il corpo e il senso di colpa per quello scempio, manco lo avessi fatto io, mi avviluppò facendomi ardere dalla vergogna. Ma cosa c’entravo io? Io volevo solo andar via! Tentennai nei dubbi che stavano assalendomi. Feci un passo indietro, e mi accasciai sulla sedia. Nascosi la testa fra le braccia. Non volevo più sentire quelle voci, non volevo più quelle presenze intorno a me. Il buio mi sembrava ancora più nero, più pesto e molto, molto opprimente. La mia forza interiore stava cedendo. Ero disperata.
Una carezza, delicata e leggera come una farfalla, venne in mio soccorso. Sentii chiaro il tocco sulla mia nuca. “Hai il volto tumefatto. Cosa ti è successo?” disse quella voce angelica. “Non è successo assolutamente nulla! È soltanto che mi ritrovo al buio!Intorno a me ci sono tanti esseri che però non mi vedono e non faccio altro che entrare nelle loro storie!”
Così avrei voluto rispondere, ma non feci a tempo. Una ennesima donna, intervenne con un fil di voce: “è stato mio marito... infermiera, mi può portare uno specchio per favore?” “No, mi dispiace,in questo reparto gli specchi non sono ammessi, visto il tipo di ospiti di questo reparto, uno specchio potrebbe diventare pericoloso” “Perché? Dove mi trovo?” “Nel reparto psichiatrico dell’ospedale, lei ha tentato il suicidio, non ricorda?”
Quella conversazione si interruppe così, come una meteora che passa e fugge via. Ma su di me lasciò un segno profondo e provai dolore, come se avessi ricevuto una scudisciata sulla schiena.
Sì, in quel momento ricordai anch’io. Tutto. Gli schiaffi, gli avambracci che mi dolgono per la stretta. Lo spintone, io che cado sul letto. La camicia da notte strappata, lui che si avventa su di me. I miei polsi sanguinanti, il gas della cucina, i farmaci ingeriti, i miei vacui tentativi di fuga. La sirena dell’ambulanza, la lavanda gastrica, la finestra dell’ospedale con le sbarre. Uno squarcio di verità in quell’oblio surreale mi aveva illuminato la coscienza. Avevo avuto bisogno del peggiore dei ricordi, il più straziante tra tutti per dare un senso a quello che stavo vivendo. È proprio vero, solo quando tocchi il fondo, sai che è il momento di risalire.
Annusai l’aria, inconfondibile riconobbi l’odore: il mio odore. Le voci e i corpi che mi stavano intorno mi appartenevano, le loro storie mi appartenevano. Quegli esseri femminili erano me.
Erano tutti lì, nel buio, a testimoniare le metamorfosi dei miei cambiamenti, da infante a donna fatta. Nel buio avevo incontrato mio padre e mia madre. Il buio aveva frantumato il tempo e le distanze tra gli avvenimenti. Li avevo tutti accanto in un unico spazio. Ma perché? Perché ero prigioniera del buio? Brandelli della mia esistenza non stavano facendo altro che martellare il mio fragile stato emotivo. Allora sono fragile perché sono al buio o sono al buio perché sono fragile?
Non riuscivo a darmi delle risposte e deglutii rassegnata. Non sempre avere la risposta è la cosa più importante, ma come si vive la domanda fa, senz’altro, la differenza.
Il cellulare che avevo in tasca cominciò a vibrare. Mi ero dimenticata di averlo. Ma come tutto, in quelle tenebre, anche il mio cellulare sembrava vivere di vita propria. Lo schermo, infatti, si accese, ed era così luminoso che ne rimasi abbagliata, poi partì subito un video senza audio: vidi scorrere le immagini di una strada di un quartiere completamente vuoto dove stavano transitando placide papere con i loro anatroccoli, finalmente liberi di muoversi anche in spazi da sempre esclusivi dell’uomo.
Ecco, basta sentirsi papere e cogliere l’opportunità, quando questa capita, per vivere in maniera capovolta la realtà. Forse che il buio e l’isolamento erano stati l’opportunità di vivere capovolta la mia realtà?
Scansai immediatamente tutti questi pensieri e mi alzai di scatto. Quel video era il mio passpartout per uscire dal buio. Era la luce.
Prima che terminasse il video avrei dovuto assolutamente trovare la porta giusta. La mia fuga era a portata di mano, non dovevo perdere questa occasione.
Le porte che avevo sentito prima erano sicuramente davanti a me, alla mia destra e alla mia sinistra. Ma quelle erano quelle del mio passato.
Allora mi voltai di spalle e con quella fievole torcia illuminai l’intorno. La maniglia cromata era lì, ad un passo da me.
Sì, ero certa che quella fosse proprio la porta giusta, la porta del mio presente. Esitai un attimo.
Raccolto tutto il coraggio che avevo, aprii quella porta.
Trovai qualcuno ad aspettarmi oltre.
“Mamma, sono passata a prenderti! Il lockdown è finalmente finito!” disse mia figlia, abbracciandomi con le lacrime di felicità negli occhi.
Annusai l’aria. Era fresca. Feci un grande respiro.
Daniela Tudisco