A casa presi il mio quaderno e scrissi di getto un intero capitolo del long Trhiller a cui stavo lavorando, dando voce al Professor Severino attraverso il protagonista, il Maestro Alfredo Pulselli, trovato morto in una certosa, ucciso da tra armi diverse, probabilmente da tre assassini diversi, ma lo stesso movente. Il ragionamento del filosofoso è talmente duro che è meglio riportare l'intero capitolo da  “La Formula di Vin Ji

Libro Quinto - Parte Prima - Capitolo 2 AAA AAA

“L’Abbandono del Mondo”

5.2.2
Quando alcuni giorni dopo, cioè tra qualche capitolo, Fabio ebbe occasione di leggere i giornali, avrebbe ricordato un discorso del suo Maestro Alfredo Pulselli. Erano su in grotta, davanti al fuoco in una notte senza luna e piena di stelle. Stavano in silenzio a guardare il cielo e il maestro si era messo a canticchiare sottovoce una canzone come se cercasse le parole in qualche parte del ricordo. Fabio capiva solo un ritornello che interrompeva una nenia che sembrava una ninna nanna.
“Piangi Terra Mia”. Diceva proprio così.
Tutte le altre parole se le portava un vento leggero di scirocco. “Quante parole vanno via così, nel vento, quante poche rimangono sulla carta.”
“Il problema è che sulla carta, caro Fabio, bisogna mettercele le parole, ma è difficile sceglierle, è un lavoro di distillazione tremendo. La creatività è una brutta bestia, costa fatica, sudore, passione. Io sono stanco, sono vecchio, il giovane sei tu, ora tocca a te. Ti costerà sofferenza, ma io sono convinto che sarai in grado. Dovrai ricominciare da capo, più volte, scoprire nuovi mondi, proprio come fanno i bambini, ma dovrai anche abbandonare mondi che credevi fossero tuoi. Non è facile, devi svuotare la tazzina se vuoi che questa possa riempirsi di nuovo.”
Era raro che il professore si mettesse a parlare seriamente, di solito saltava da una barzelletta ad una metafora, da una battuta ad un’attinenza, quella notte però era in vena di discorsi importanti, che erano quelli, lui diceva così, che non si sa di cosa parli. Quella volta infatti parlava più a sé che al suo alunno, col tono di chi chiede perdono, era come se parlasse alle stelle, come se da loro aspettasse una risposta o almeno un cenno di assenso. All’Orsa Maggiore disse di essere preoccupato per come stavano andando le cose, gli sembrava che il mondo si fosse capovolto. Secondo lui la spiegazione era semplice:
“Le stelle hanno abbandonato il mondo e il mondo è ormai orfano di padre.”

A Fabio scappò tra i denti un “Perche?”
Il maestro gli indicò Marte: “Dimmelo tu, dio dalla spada lucente perché tu che puoi vedere l’uomo da lontano mentre fa giro giro tondo, ma comprendilo, lui continua a girare perché non sa più in quale direzione andare. Essere Padre significa indicare una strada. Essere senza Padre significa essere senza valori. Eh già, Fabio, il mondo per noi non è più un valore, il Padre ci ha abbandonati, ed è un abbandono che si porta via ogni forma di assoluto.”
Per indicare che la lezione era finita Alfredo si mise a canticchiare un altro canzone, ma questa Fabio la conosceva. “Nelle auto prese a rate… Dio è morto…” La cantarono insieme finendo in una gran risata. Il maestro disse: “Bravo Guccini che conosce Nietzsche: nessuno mai si è dichiarato colpevole di averlo ucciso, mentre non c’è nessuno che non abbia contribuito all’omicidio.”
Il professore era fatto così, gli bastava un’idea e partiva per la tangente. Adesso indicò Giove: “C’è stato un turbine che ha portato via ogni tradizione, mentre è solo in essa che l’uomo può trovare la sua strada. Un turbine che ha sconvolto ogni struttura istituzionale ed ogni schema mentale. Un turbine guidato da una certa tecnica che si spaccia per scienza, ma non lo è perché una vera scienza è sorretta da una filosofia Occorreva un altro ordine. Purtroppo non c’è ordine che accetta di morire anche se si rende conto di essere incapace di funzionare. Il vecchio ordine ormai è morto, il nuovo non si è ancora espresso. E’ una stagione di mezzo assai pericolosa.”
Fabio sentiva nel tono del maestro una sofferenza indicibile velata dall’impotenza. Restò ad ascoltare senza alcuna intenzione di intervenire nelle sue lunghe pause di silenzio. Sapeva che il professore non lasciava mai incompiuto un viaggio, ed era curioso di scoprire dove sarebbe andato a parare. Intanto il maestro tornò a rivolgersi all’Orsa Maggiore: “L’uomo, orfano inconsapevole di padre, non comprende i tempi, la radicalità delle trasformazioni in atto in tutto il pianeta. E’ evaso dalla storia, così il nuovo non può manifestarsi. Dovrebbe smettere l’orgoglio, accettare una guida, che sia senza pregiudizi, ma con ‘giudizi di valore’, e chi meglio di un padre.”

“La tecnica non ha una visione globale delle cose, non indica una via, allora ci condanna a comportamenti standard senza alcuna possibilità di fuga. La tecnologia è la forma più rigorosa della Follia Estrema. La Follia Estrema è credere nel carattere effimero, temporale, contingente, casuale dell’uomo e della realtà: è la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni. La difesa suprema dall’angoscia suscitata da questa convinzione è diventata la tecnica come idea più radicale di salvezza. Ha soppiantato qualsiasi altra forma di rimedio contro la morte. Purtroppo la tecnica è solo un mezzo, non un fine.” A questo punto il maestro ricominciò a canticchiare la sua precedente canzone, quella che sembrava una nenia con uno strano ritornello, solo questo comprensibile: “Piange Terra Mia, che ne hai bendonde.”
Si alzò, portò le mani al cielo e cominciò a cantare questa volta a tutta voce che sembrava un tenore alla Scala: “Piangi Terra mia che ne hai bendonde, vedo mura e archi, simulacri e l’erme, torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo, non vedo il cuore e l’onor, dei nostri padri antichi. Ora fatta inerme, nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimé quante ferite! Che lividor, che sangue! Oh qual ti veggio, formosissima donna! Io chiedo al cielo, e al mondo: dite dite; chi la ridusse a tale? E questo è peggio che di catene ha carche ambe le braccia, sì che sparte le chiome e senza velo, siede negletta e sconsolata, nascondendo la faccia tra le ginocchia, e piange. Piangi, che ne hai bendonde, Terra mia!!”



Da ‘Un’idiozia conquistata a fatica’, 1998 

 

IL GRIDO

E voi così innocenti colpevoli d’esser nati
in giro per le strade gli sguardi vuoti i gesti un po’ sguaiati
si vede da lontano che siete privi di ideali
con quello spreco di energia dei giovani normali.

E voi che pretendete che tutto vi sia dovuto
0 con la scusa infantile che nessuno mi ha mai capito
siete così velleitari come artisti improvvisati
con quella finta libertà dei giovani viziati.

È un gran vuoto che vi avvilisce e che vi blocca
come se fosse un grido in cerca di una bocca.

E voi che rincorrete, decisi e intraprendenti
l’idea di una carriera tipo imprenditori sempre più rampanti
disponibili a tutto, all’occorrenza anche disonesti
con tutta la meschinità dei giovani arrivisti.

E voi così randagi sempre sull’orlo del suicidio
covate ben racchiusa dentro al vostro petto un’implosione d’odio
l’eroico vittimismo da barboni finti e un po’ frustrati
e col cervello in avaria dei giovani scoppiati.

È una rabbia che vi stravolge e che vi blocca
come se fosse un grido in cerca di una bocca.

E voi che brancolate in un delirio tra il male e il bene
col rischio di affondare nella totale degradazione
aggrappatevi al sogno di una razza che potrebbe opporsi
per costruire una realtà di giovani diversi.

C’è nell’aria un’energia che non si sblocca
come se fosse un grido in cerca di una bocca. AAA AAA

Giorgio Gaber